che condannarono Galileo Galilei
C'era una mano cremonese nel 1633 a vergare la sentenza che avrebbe condannato Galileo Galilei all’abiura delle osservazioni contenute nella sua ultima opera, quei “Dialoghi” destinati ad aprire poi le porte alla ricerca moderna. Ci sono voluti poi quasi quattrocento anni perché il Vaticano nel 1992 con papa Giovanni Paolo II ammettesse l’errore con un tardivo e postumo mea culpa. Non ebbe però alcun dubbio quel 22 giugno 1633 il cardinale cremonese Desiderio Scaglia nel pronunciare le parole di condanna e, secondo alcuni storici, a scrivere materialmente la sentenza contro lo scienziato pisano. L’alto prelato era stato chiamato con altri nove giudici a confutare le tesi sostenute da Galileo un anno prima nei “Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano” pubblicato coi tipi del Landini. Allora lo scienziato, ormai vecchio e malato, aveva raggiunto con le sue tesi, che condensavano una vita intera spesa negli studi, una fama indiscussa nel Vecchio Continente. Il processo aperto contro di lui nelle grigie stanze del convento romano di Santa Maria sopra Minerva, era destinato dunque ad avere una vasta eco in tutto il mondo allora conosciuto ed a segnare profondamente quello che si stava delineando come il primo, vero conflitto tra le concezioni egocentriche dell’Universo ereditate dall’adesione acritica alle Sacre Scritture, e le recenti scoperte scientifiche che ribaltavano quella visione. Desiderio Scaglia, domenicano dell’ordine di San Carlo, era sicuramente la personalità di maggiore esperienza all’interno del collegio giudicante del Sant’Uffizio, in grado di confutare le argomentazioni dello scienziato pisano. Nato a Cremona nel 1567 e morto a Roma il 21 agosto 1639, il cardinale aveva già avuto modo di incontrare Galileo partecipando al precedente processo celebrato nel 1616. In occasione del secondo processo a Galileo gli venne assegnato il compito di esaminare, con Benedetto Castelli, il contenuto dei “Dialoghi” per determinare i capi d’accusa. Ma, anzichè confutare le asserzioni tecniche, l’accusa fondava i propri capi di imputazione sulle presunte difformità con le verità contenute nelle Sacre Scritture, con un’impostazione più di tipo politico che scientifico, voluta dal papa Urbano VIII per debellare quella dottrina che, se tollerata, avrebbe potuto costituire un pericoloso precedente. Prevalse dunque la linea dura per sradicare un’idea che la Chiesa non riusciva a contrastare con la forza della ragione. Umiliando Galileo, costretto a negare la validità della sua teoria, i giudici dell’Inquisizione cercavano di umiliare anche la scienza, tentando di arrestarne lo sviluppo e l’evoluzione. L’immagine del grande uomo di scienza costretto a prostrarsi in ginocchio al cospetto del Tribunale, pur costituendo una vittoria indiscutibile per la Chiesa segnava nel contempo la sconfitta della civiltà occidentale.
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