«Forse, più che vietare, bisogna pensare ad educare». Imerio Chiappa ha uno sfondo virtuale che lo avvolge e lo catapulta all’interno di una baita di montagna, finestroni larghi con visuale su vette innevate. Ci concede un’intervista via Meet nel suo giorno di smart working e ci mostra, con la potenza dell’immagine, una sua irrinunciabile passione e le strade infinite che offre la tecnologia.
Insegnante di Matematica dal 1992 al 2004 a Bergamo e in provincia, poi dirigente scolastico per vent’anni nel medesimo territorio, Chiappa è Dirigente dell’Ufficio Scolastico provinciale di Cremona da quest’anno. Lo abbiamo contattato per un parere sull’appello di Novara-Pellai.
Dirigente, cosa ne pensa?
«Mi chiede una risposta complessa. Ci sono tantissime sfaccettature da tener presente. Stiamo parlando di una fascia di età in cui i minori dovrebbero assumersi qualche responsabilità. Totalmente d’accordo che i bambini della Primaria non usino lo smartphone, mentre per quelli della Secondaria comincerei un approccio non così negativo. D’altra parte, capisco bene la problematica dei rapporti che tra i ragazzi si innesca attraverso questi mezzi. Abbiamo visto e sentito di molti episodi pericolosi».
Quindi?
«Quindi bisognerebbe educare, più che vietare, che poi diventa un po’ come la storia del whisky nel 1929. Come controlli il rispetto del divieto? Dobbiamo far capire a chi usa per la prima volta lo smartphone che ci sono rischi grossi. Se non c’è l’attenzione dei genitori e dei centri educativi, il danno accade comunque. Io sarei più per una maggiore attenzione, con restrizioni più serie. I ragazzi, oggi, entrano in qualunque sito: se la domanda è, “Hai più di 18 anni?”, cosa crede che risponda il 12enne? E a questo livello che si deve intervenire!».
Nell’appello si evidenziano anche i rischi sull’ apprendimento e sull’isolamento...
«Non si può essere che d’accordo. L’uso distorto di questi strumenti è deviante. Le esperienze reali sono quelle che aiutano a far crescere i nostri bambini e gli adolescenti. Con il cellulare ti isoli, ti relazioni con gli altri attraverso la mediazione di uno strumento che è comunque un filtro. Però torno a ribadire: eliminare un oggetto così è una pura utopia. Il divieto verrebbe scavalcato dalla realtà dei fatti. Bisogna “educare a”. Quando c’è uno stop, tutti ci fermiamo, anche per le conseguenze in cui incorriamo. Ecco, dobbiamo far capire ai ragazzi i rischi e le conseguenze che, per primi loro, subirebbero con un abuso di smartphone. Noi diamo per scontato che dato in mano uno strumento così, lo sappiano gestire. Parliamo tantissimo di “educazione alla cittadinanza”, “al benessere”, ma sarebbe utile anche per (...)».
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