Non crede all’accusa – che definisce «grottesca» – di una società ancora oggi «patriarcale». Pensa che «il “maschio” sia il nuovo caprio espiatorio» per giustificare drammi che si spiegano (anche) con «l’esistenza del male e di una disperazione ingovernabile». Punta il dito contro «la demolizione della figura del padre a partire dagli anni Settanta» e contro il suo frutto, «un modello libertario e individualista» della società. Luca Pesenti, Professore associato di Sociologia Generale nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano, esce dal coro dei commenti a senso unico sul caso di Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa dal compagno Filippo Turetta e offre una soluzione che, a suo dire, «è ben poco “politically correct”: il ritorno nella società proprio della figura del padre».
Pesenti, cosa fa emergere il caso di Giulia?
«Mi colpisce molto la reattività con cui si ricorre a troppa sociologia dove invece se ne dovrebbe usare meno».
Paradossale detto da lei...
«E’ vero. Ma questo caso, come tanti altri, ci ricorda quello che la nostra epoca sceglie deliberatamente di dimenticare: che il male esiste. Quando sento dire che “le famiglie dovrebbero”, la “scuola dovrebbe”, la “società dovrebbe”, dico: sì, ma il male c’è lo stesso. Se guardo e ascolto le parole del padre di Filippo non ho l’impressione che sia stato un padre assente all’interno di una famiglia inadeguata. Poi faccio una seconda osservazione».
Prego.
«Esiste un meccanismo sempre più forte di colpevolizzazione che assomiglia al meccanismo di René Girard del caprio espiatorio: non riuscendo a governare il dolore che ogni dramma determina, cerchiamo un caprio espiatorio e lo abbiamo trovato nel maschio in quanto tale: violento e sospettabile di esserlo. Da qui il meccanismo di rieducazione dell’ormai pluricitata mascolinità tossica e del patriarcato. In realtà, se proprio bisogna far sociologia, dobbiamo cominciare a dire che ogni caso è a sé. Ieri (lunedì 20 novembre, ndr) un 70enne ha ucciso la moglie che aveva problemi psichiatrici gravi. È un caso di disperazione, come ce ne sono tanti, purtroppo. E invece si generalizza definendo ogni omicidio di donna il frutto di una mascolinità tossica».
La nostra società è o no patriarcale?
«Siamo in una società narcisistica, non patriarcale. Abbiamo liquidato approssimativamente tutte le forme di disciplinamento e l’individuo narcisistico della nostra epoca non sa più cosa sia la rinunca, il limite. È alla ricerca di un godimento immediato e istantaneo e – esattamente come i bambini – se lo privi dell’oggetto del suo godimento reagisce in modo istintivo».
Quali elementi storici e culturali hanno fatto nascere questa società?
«Paradossalmente, quello che stiamo vedendo è il frutto avvelenato del femminismo. Quel femminismo che ha fatto fuori la figura del padre, che Jung e Lacan ci dicono essere la figura centrale per curare la ferita narcisistica dell’individuo, che lo fa uscire da sé e lo fa entrare nel mondo, capace di sostenerne l’urto delle sfide. Quello stesso femminismo adesso (...)».
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