conquista il San Domenico
Mentre il pubblico riempie la platea del Teatro San Domenico lei è già sul palco, appollaiata su uno sgabello, nuda. E' china su se stessa, quasi a volersi abbracciare, proteggere. Canta una nenia tremolante, che a tratti ricorda le note dell'Inno nazionale. «Mio papà me lo faceva cantare sempre», racconta a chi la osserva dalle poltrone buie, sguardi ipnotizzati dalla carne bianca illuminata da uno spietato occhio di bue, al centro del palco. Una nudità che con l'incalzare del monologo scompare agli occhi degli spettatori, prima attoniti, poi rapiti. Il racconto alterna ricordi del passato, casting pubblicitari, telefonate concitate, risate isteriche e dialoghi a più voci, in un climax che ricalca l'ansia di realizzazione verso stereotipi sociali eletti ad ideale supremo. Eppure è fiera di essersi fatta da sola, dichiara, mentre racconta i compromessi cui ha ceduto per raggiungere lo spettro della fama dipinto sullo schermo tv. Basta buttarsi, dice, e prendere al volo quel treno che passa una volta sola, una metafora che si sovrappone al tragico suicidio del padre sulle rotaie di un binario. Irriverente e feroce, Silvia Gallerano infiamma il palcoscenico del San Domenico nel monologo “La merda” prodotto da Cristian e Marta Ceresoli; una critica alla società moderna, vera e cruda come la nudità. Gli stereotipi diventano maschere ironiche, che l'attrice indossa con disinvoltura scivolando dal tragico al comico, un climax che ad ogni atto del monologo sfocia in un grido rauco e liberatorio. Una storia di donna qualunque che incarna l'Italia stessa, «Perché sono i piccoli uomini a fare la storia», così le raccontava sempre il padre. E lei, ragazza “brutta” dalle cosce “troppo rotonde”, si sente come quei Mille che un giorno fecero l'Italia: uomini con la camicia vermiglia come il rossetto che porta sulle labbra spalancate in una voragine di denuncia, quasi volesse inghiottire il mondo che non riesce a conquistare. Un'analisi lucida e dolorosa che si spegne tra gli applausi del pubblico mentre, in silenzio, avvolge il corpo bianco in un drappo tricolore.
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