Recuperarli potrebbe essere il motore
per muovere Cremona
Sembra la planimetria di una città bombardata in un devastante conflitto: certo è facile e immediato leggere in modo negativo questa immagine, a interpretare ogni episodio come macerie nel tessuto del territorio. E visto che negli ultimi settant’anni di guerra devastante su Cremona non v’è notizia, è altrettanto immediato l’interrogativo di come, in un prevalente ed avvilente continuo silenzio, si sia potuto arrivare a tanto; dove è stata la città fino ad oggi, da quali miopia e atarassia è stata ammorbata? Come si è perso l’orgoglio, l’affetto per la propria città, il rispetto per la storia e i valori di una comunità? Ma forse non è né interessante né produttivo chiederselo, non ancora una volta per acquiescenza o per disamore, ma per tentare di dare risposta ai bisogni, ai richiami purtroppo sommessi dei giovani piuttosto che alle pur legittime domande degli storici o dei notisti politici.
Ed allora questa oggi può essere letta come la pianta di un deposito di tesori.
In questi mesi abbiamo coniato ed usato il termine di “architettura disponibile”, a sottintendere la volontà di cogliere in ogni fabbricato, in ogni vuoto urbano, la loro potenzialità, l’opportunità di tornare ad essere, anche in modo innovativo, un tassello del grande mosaico di una città viva, che cerca di esprimersi, di generare risorse, di preservare una forte identità ed attrattività per il suo futuro.
Abbiamo presentato alcuni dei casi più eclatanti di questo patrimonio non solo edilizio, ma soprattutto culturale e con la qualità di poter essere considerato, ognuno nel proprio ruolo, una parte significativa del motore che dovrebbe muovere Cremona. Di questi solo Casa Stradivari ha un nucleo di attività che la fa considerare, pur con alcuni limiti e con il solo impegno dei privati, una componente attiva. Per San Francesco, Banca d’Italia, Politeama, Supercinema, Manfredini tutto appare nel limbo di un quadro senza cornice, di reiterate vaghezze che non lasciano presagire nulla di efficace in tempi umani.
In condizioni analoghe (pur nella diversa natura dei luoghi) potrebbero essere considerati altri casi: il complesso di San Vitale con i suoi magnifici affreschi, ben restaurato e ricuperato alla fruizione pubblica anni fa, è del tutto sottooccupato e votato a un destino del tutto incerto. Di Palazzo Grasselli, oggetto di munifico lascito al Comune con obiettivi di destinazione precisi e lungimiranti, si sa solo che è considerato un fabbricato da mettere a reddito, meglio se con una alienazione. Così è per Palazzo Stradiotti, che la proprietaria Fondazione deve vendere per destinare il ricavato ai suoi compiti istituzionali. Dell’enorme area dell’Arma Guerra, strategica alle porte della città, dopo l’inefficacia di un PRU (Piano di recupero urbano) di quindici anni fa, non si legge nessuna indicazione programmatica. Discorso ancora più triste per il comparto delle Ex Caserme: un programma apparentemente condiviso e che coinvolgeva istituzioni pubbliche e private è stato cancellato in un amen perché considerato non sostenibile per la città. Sembra che la maledizione del faraone aleggi sulla nostra programmazione urbana, da decenni non si riesce a concludere in modo coerente quel che si inizia: pensiamo a tutto il complesso dell’ex ospedale, fermatosi a metà intervento, e ora considerato volume disponibile a qualunque cosa pur di far cassa. Forse si potrebbe parlare dell’ex chiesa di San Carlo, o della cosiddetta Cavallerizza, o dell’utilizzo del fabbricato del Provveditorato agli studi, o di quello dell’ex Genio Civile, o, tornando al privato, all’ex Cinema Tognazzi che fatica a trovare un suo destino congruo. E che destino avrà la nobile architettura della chiesa di San Marcellino, se la pur rara utilizzazione per alcuni raffinati concerti del Festival Monteverdiano dovesse essere considerata non bastevole per il suo sostentamento manutentivo e ancor meno per la sua valorizzazione? E se si volesse riaffrontare il tema del tessuto urbano incompiuto, sarebbero da considerare come architettura virtuale molti vuoti incomprensibili; ad esempio quello mai risarcito a ridosso delle scuole e con affaccio di cassonetti sulla via XX Settembre; e ancora quello compreso fra via Manini e via Mosa, nella zona che dovrebbe essere ambientalmente pregiata dei bastioni. Forse un po’ di coraggio e di indirizzi coerenti potrebbero mettere queste aree a frutto per la città, sia in senso economico, che urbanistico che architettonico.
In questi mesi è poi nato il fondo Eridano; probabilmente le motivazioni economiche che l’hanno generato sono validissime, ma non riusciamo a toglierci l’impressione che alla lunga possa divenire il cimitero delle idee di valorizzazione, un modo un po’ pilatesco di sottrarre all’analisi e alla programmazione urbana gli oggetti su cui il vuoto di intenzioni è più evidente. Le amministrazioni, nel momento sciagurato in cui viviamo, hanno bisogno di denaro fresco e sicuro, il futuro della città ha bisogno di ben altro: l’ossigeno per la sua valorizzazione è fatto di proposte di qualità, di visioni ampie, di progetti condivisibili per generare lavoro e risorse, non di soffocanti toppe.
Il Piano di governo del territorio che ci piace è la trasposizione tecnica del piano di governo della città; e fondamentalmente si basa su un unico assunto: non ci si lascia macerie alle spalle, non si tralasciano opportunità non ancora colte, ogni vuoto di funzione o di valori è una priorità, un’emergenza che deve essere risolta subito. Non è più accettabile l’italica visione del “vedremo poi”, “non tocca a me”, “non ci sono le risorse” ed altri puntelli del non fare. Un’urbanistica rivoluzionaria (perché di questo c’è necessità) indirizza a ricostruire la città, ne riconosce il valore ed è capace di proporlo ed imporlo; un’urbanistica rivoluzionaria sa leggere il futuro nell’esistente prima ancora di accettare un fantomatico nuovo senza idee né programmi, destinato a divenire in breve tempo un altro contenitore dismesso, un altro peso per la città. Il nuovo vero è inserirsi nella storia interrotta con qualità architettonica, anche con sperimentazione formale, nell’insufflare vita dove pare non esserci più, nell’esprimere nelle attività la vera monumentalità che non è mai un’autorappresentazione, ma un brano della crescita della città.
Abbiamo creato le periferie senza un progetto: adesso basta edilizia di sola speculazione, generiamo redditi nel ricompattare la città, nell’offrire varietà di situazioni ma con identica qualità di vita. E’ soprattutto questo il luogo dell’architettura moderna, della ricerca di forme espressive, di modelli abitativi e mix funzionali coraggiosi. Vorremmo fra vent’anni non sentir parlare più di periferie ma di quartieri che sono il presidio identitario della città, come una volta le mura, che dividevano dall’esterno ma rendevano appetibile l’interno al forestiero. I contorni della città racchiudono lo scrigno e ne anticipano le emozioni e le qualità della proposta di vita.
Il futurismo ha celebrato le macchine, l’industria, la velocità e la produttività. Ogni luogo del lavoro può anche essere bello, rappresentativo e apprezzabile fin dal suo sorgere: l’unica strada non è quella dell’abbellimento posticcio, del tardivo risarcimento formale ad un ambiente in cui non ci si è correttamente inseriti, i campanili non hanno profanato il cielo, lo hanno avvicinato.
Non ci si lascia indietro nulla, né pietre né piazze né tradizioni né persone né categorie economiche, non ci si lascia alle spalle Cremona. Quanti esempi siamo riusciti a documentare di capacità progettuale, di qualità imprenditoriale, di eccellenze perpetuate? Di questi esempi chi ha competenze istituzionali non deve solo parlare per menarne immeritato vanto e dedicarsi ad altro di più facile, attorno a loro non si deve lasciar crescere il vuoto, ma al contrario capire che sono la città, le parti di un sistema che può imparare a riconoscersi come tale e come tale funzionare. L’attendismo che ha marchiato la città, che spesso ha atteso le risorse invece di generarle, che cercava soldi da spendere invece di produrre progetti da finanziare, non può più avere voce né udienza: anche dal poco, dal quasi niente, si costruisce, e Cremona non ha poco, ha una ricchezza che spesso stolidamente vuole monetizzare invece che indirizzarla alla produttività e alla condivisione. In questa direzione bisogna lavorare, con determinazione, lucidità e dimenticando gli opportunismi.
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