Philippe Halsman e Alì, Muhammad Alì. Il fotografo che cattura gli istanti al volo, il pugile che tra le corde del ring danza come la farfalla e punge come l’ape.
E’ un incontro tra surrealisti, il loro. Entrambi indagatori dell’inconscio, entrambi artisti che si muovono secondo schemi fuori dallo schema. Il risultato è uno sberleffo, sventolato al mondo da Alì prima ancora di diventare Alì, il più grande tra i pugili. Una smorfia irriverente, sfrontata. I guantoni ben distanti tra loro, a mostrare il viso: il volto nero di un’America rinchiusa ancora fra discriminazione e segregazione.
Alì ci mette la faccia. Penetra l’obiettivo con occhi stralunati e spalanca la bocca. Metà sbadiglio e metà urlo. La noia procurata dal conformismo imperante del tempo, la ribellione della black America che monta, sale da dentro, si prepara a deflagrare. Quel finto sguardo allucinato, l’ovale della bocca che emette un suono muto fanno dello scatto di Halsman il lato grottesco del celebre dipinto di Munch. L’angoscia espressionista cede il passo all’onirismo surrealista. Al sogno da inseguire. E’ il 1963, Alì è “solo” Cassius Marcellus Clay jr, pugile giovanissimo, fresco campione olimpico con «un nome da schiavo» da ripudiare. Sonny Liston ancora non immagina che di lì a qualche mese quella montagna di muscoli dalla lingua tagliente e dal pugno esplosivo l’avrebbe detronizzato, il Vietnam è solo una virgola affacciata sul Golfo del Siam, un adolescente George Foreman organizza risse da saloon nei quartieri malfamati di Houston. Ma in quel volto plastico di Cassius Clay che si apre al mondo c’è tutto Alì: l’uomo scelto dal destino per riscattare milioni di neri americani.

Paolo Loda

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