I diversi attentati che hanno sconvolto l’Europa nello scorso decennio in nome dell’estremismo islamico. Le violenze scatenate in Francia dopo la morte di un giovane di 17 anni per mano della polizia. L’omicidio di giornalisti, avvocati e collaboratori di giustizia in Olanda per mano della Mocro Maffia. Le faide a colpi di granate e mitragliatori delle gang di origine somala in Svezia. E, infine, gli innumerevoli casi di aggressioni (fisiche e sessuali), reati contro il patrimonio e omicidi, tentati o compiuti, effettuati da parte di baby gang in Italia. Fenomeni che, pur attraversando Paesi diversi, hanno come comune elemento quello di avere per protagonisti giovani di seconda (e in alcuni casi anche terza e quarta) generazione, cioè ragazzi figli o discendenti di persone di origine immigrata.
Ma cosa ha spinto e spinge questi ragazzi (una minoranza del totale, sia chiaro) ad attuare azioni che sembrano danneggiare non solo gli altri ma anche se stessi, vedasi la costante ostentazione delle proprie imprese criminali? Le cause sono differenti. Innanzitutto, per comprenderlo può venirci in aiuto la teoria del conflitto culturale del sociologo Thorsten Sellin, il quale, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, cercò di studiare da un punto di vista criminologico le tipologie di conflitti che caratterizzavano le diverse generazioni di immigrati negli Stati Uniti del tempo. Nel suo “Culture, conflict and crime” del 1938 egli aveva notato che, mentre la prima generazione di famiglie immigrate giunte nel Paese si atteneva ai principi culturali di origine e non commetteva particolari reati, i loro figli tendevano a commetterne molti di più a causa della difficile integrazione dovuta al conflitto fra i valori e le norme di condotta trasmessi dalla famiglia e i valori e le norme della società d’accoglienza “respirate” nella vita quotidiana. Si tratta, quindi, di un problema identitario che esula dal modello di inclusione adottato, sia esso di tipo assimilazionista o multiculturale, ed è solo marginalmente economico, come invece il più delle volte si sono cercate di interpretare le difficoltà nell’inclusione delle nuove generazioni europee di origine immigrata. Non per essere frainteso, il problema della povertà delle periferie presso cui la maggioranza delle famiglie provenienti da contesti extraeuropei si va a stabilire è un fatto reale, così come la scarsa condivisione del territorio con le famiglie autoctone che, per paura o migliori possibilità economiche, abbandonano quei quartieri per stabilirsi altrove. Quando nel 2021 il presidente francese Macron visitò le periferie di Montpellier, una donna (...)
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