esempi positivi»
Da tredici anni don Roberto Musa è cappellano a Cà del Ferro. Un ruolo delicato a stretto contatto con le debolezze, le difficoltà e le speranze di chi vive all’interno della casa circondariale. «Oltre a celebrare i sacramenti le messe, le confessioni ecc... nel ruolo del cappellano c’è anche l’incontro quotidiano e personale con i detenuti per cercare di costruire con loro, insieme alle altre figure professionali, percorsi di inserimento individuale che iniziano durante la detenzione per proseguire, poi, all’esterno del carcere. Diciamo che il prete viene riconosciuto da tutti, anche dai detenuti che professano altre religioni, come una figura di accompagnamento spirituale».
Che solitudini si incontrano in carcere?
«Si fa sentire la mancanza della famiglia, di una moglie, dei figli, dei genitori.... e la situazione si fa più pesante quando la famiglia si trova in un’altra nazione perché questo rende impossibile colmare la distanza. All’interno del carcere si assiste inoltre alla fatica di creare nuove relazioni: in una situazione già di per sé complessa non sempre è facile la convivenza tra persone di etnia e di cultura diverse. Però sono stato testimone anche della nascita di belle amicizie: riuscirci non è scontato ma è sicuramente motivo di conforto».
L’incontro con lei, immaginiamo, possa essere anche un momento di riflessione e di valutazione del proprio percorso....
«Non per tutti. Dipende dal tipo di percorso che una persona sceglie di fare. La riflessione, il fatto di mettersi in discussione è la proposta che chi opera in carcere fa quotidianamente: c’è chi l’accetta, e lo fa in maniera decisa, e allora si cerca di lavorare insieme al meglio....
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