presenze nuove ma inafferrabili
Il concetto di vuoto in urbanistica e architettura non ha mai assunto una connotazione decisamente negativa. Anzi, molti autori riconoscono che proprio il vuoto è la materia del progetto, un po’ come le pause nella musica. Che sia vuoto degli interni (vuoto architettonico) che quello degli esterni (vuoto urbano) si tratta sempre di una logica costruttiva e percettiva, e non solo di un’opera di sottrazione. Vuoto non è necessariamente qualcosa che manca, ma qualcosa che è compreso fra, che è racchiuso o contenuto.
Nel saggio “L’architettura della sottrazione” pubblicato su Casabella nel 1998 Sergio Polano riprende la definizione di Erodoto di Alicarnasso del termine architettura secondo la quale “da una parte, un’azione progettuale intesa a costruire tramite il togliere e lo scavare, il cavare e l’estrarre, l’erodere, e il sottrarre materia, un diminuire il volume per asporto… dall’altra il comporre spazi per aggiunta, sovrapposizione, contrapposizione, distribuzione, legame, unione di elementi, membrature, apparecchi e materiali”.
Si parla cioè dei percorsi generatori dello spazio pubblico, di “piazze e apparati edilizi residenziali e di rappresentanza e tessuti minori, all’architettura urbana delle città italiane”. In altre parole Renato Bocchi, già professore all’Università Iuav di Venezia, precisa questo atteggiamento culturale: “Il vuoto secondo la nostra concezione occidentale, invece, collegata alla stessa scienza della fisica, è indipendente dal definirsi rispetto a qualcosa che lo contiene: il vuoto è pura assenza, anti-materia, nulla, anche se tendenzialmente per concepirlo e definirlo siamo pur sempre portati a vederlo in opposizione al pieno, quindi alla materia percepibile coi nostri sensi, visibile, tangibile, ecc. In tal senso il vuoto è oggetto di un procedimento di vera e propria costruzione...
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