il bisogno di sentirsi vivi e vicini all’ambiente d’origine
La Grande Guerra appare oggi un evento incredibilmente lontano nel tempo. L’aggettivo “grande”, quasi che le precedenti guerre non avessero dimensioni paragonabili, evocava uno scenario per quel tempo apocalittico, una realtà che per la sua valenza distruttiva appariva irripetibile, di fronte alla quale ogni uomo rimaneva desolatamente impotente. Di questa guerra la storiografia ha sviscerato gli aspetti politici e militari, ma ha considerato secondaria l’espressione di comportamenti e reazioni emotive dei soldati di fronte alla realtà quotidiana. Aspetto che meriterebbe, invece, maggiore attenzione in quanto, oltre a dimostrare la volontà, fortemente avvertita dai soldati, di ricordare e di raccontare, costituisce una testimonianza diretta, vissuta e dunque non mediata da interpretazioni di sorta, divenendo una fonte storica insostituibile nella ricostruzione degli eventi.
L’Archivio di Stato di Cremona conserva il carteggio, da me trascritto e pubblicato, che raccoglie la corrispondenza intrattenuta dai quattro fratelli Lazzarini (Giuseppe, Pietro, Agostino, Lazzaro) sia con la madre Angela Tessaroli, sia fra loro nelle diverse zone di destinazione bellica. I loro fogli matricolari li registrano nati a Cappella Picenardi, Derovere e Pessina in anni dal 1889 al 1898, mentre le buste, che di alcune lettere si conservano, li indicano residenti a Vighizzolo, luogo al quale le missive sono indirizzate. Gli stessi documenti informano che Giuseppe morì in combattimento, Pietro ritornò a casa per morire delle conseguenze di una malattia già testimoniata nelle lettere dagli ospedali da campo, mentre Agostino e Lazzaro sopravvissero alla tragedia.
Dall’epistolario risulta che i Lazzarini appartenevano a un ambiente sociale contadino, a una realtà fatta di duro lavoro manuale, ciò che ne spiega il livello culturale non elevato, tanto che dei quattro solo Agostino viene dichiarato dai documenti in grado di leggere e scrivere, anche se non è dato sapere in quale misura, mentre gli altri tre risultano analfabeti, pur avendo appreso al fronte alcuni rudimenti di scrittura, forse grazie all’aiuto di soldati alfabetizzati o di cappellani militari, vergando così di proprio pugno le missive: ce lo conferma la mamma che scrive "Sono molto contenta perché ai in parato bene a scrivere che non michredevo". La lingua di questi scritti colpisce perché vera, autentica, fresca e disarmante nella sua ingenuità, nell’uso colorito di termini che suggeriscono con immediatezza la realtà delle cose, pur con una grafia incerta, con un tratto diseguale che suggerisce le precarie condizioni nelle quali era effettuata la scrittura, fra gli strepiti delle armi o peggio ancora nell’assordante silenzio di pause cariche di tensione. Non si deve cercare ovviamente la sintassi in queste carte, né puntare il dito contro le sgrammaticature, poiché il linguaggio si caratterizza per il costante tentativo di trasformare il dialetto, consueta forma di espressione, in parole che vorrebbero....
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