Un Primo maggio totalmente inedito e imprevisto quello che si celebra in quest’anno. L’annus horribilis del Covid-19 e del suo devastante impatto (sanitario, esistenziale, economico, sociale) sulle nostre vite. Con un esecutivo presieduto da un primo ministro che governa a colpi di dpcm (decreti del presidente del Consiglio dei ministri), i sindacati tra i suoi “azionisti di maggioranza”, e la presenza in alcuni suoi settori di un «pregiudizio anti-industriale», come ha detto il presidente designato di Confindustria (e presidente uscente di Assolombarda) Carlo Bonomi.
Nel 2020 del coronavirus la festa del lavoro cade in un periodo in cui molti di noi si trovano ancora sottoposti alla condizione del lockdown formalmente in vigore fino al 4 maggio, ma di cui risulta difficile comprendere quanto potrà mai finire davvero, date le frequenti dichiarazioni dei virologi sui contagi di ritorno. E, difatti, il decreto che norma la cosiddetta “fase 2” (che è, in verità, come detto da molti, più propriamente una fase “1,5”) prevede alcuni allentamenti, ma anche e altresì molte restrizioni sempre in vigore. E si colloca nel quadro di una assai problematica ridefinizione della vita lavorativa insieme a quella sociale, dal momento che ambedue necessitano di una serie di protocolli sanitari per lo svolgimento, di una regolamentazione stringente e di indicazioni chiare affinché gli operatori economici e i cittadini non si ritrovino paralizzati e in balia dell’indeterminatezza in un frangente delicatissimo quale l’odierno...
Massimiliano Panarari
Docente di Marketing politico
presso l’Università
Luiss “G. Carli” di Roma
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