Fra i tanti anglicismi che ci affliggono c’è anche il “dress code”, ovvero il “complesso di regole che definisce l’abbigliamento appropriato a una determinata occasione o a un determinato luogo”. Regole ma non norme, inviti che è meglio rispettare ma non vessatorie imposizioni. Ma c’è stato un tempo molto lungo, secoli e secoli di storia, in cui il vestirsi e l’agghindarsi erano materia di veri e propri atti legislativi, di decreti civili e religiosi che limitavano o addirittura inibivano le scelte dell’apparire, così importanti invece per molti ai nostri giorni e ai nostri giovani.
Una discreta bibliografia supporta le nostre riflessioni. Maria Giuseppina Muzzarelli, cultrice di questi temi, in “Le regole del lusso. Apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’Età moderna” (Il mulino, 2007) cerca di leggere la continuità nel tempo delle regole dell’apparire, e affida alla moda, ovvero “un modo di esprimere la propria personalità e ... la necessità di distinguersi o di omologarsi” la genesi delle “... diverse motivazioni, sociali, politiche ed economiche...” da cui sarebbero nate “le cosiddette leggi suntuarie (dal latino leges sumptuariae), che hanno tentato di «disciplinare il lusso» e hanno caratterizzato notoriamente la storia dell’Europa, ma anche delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa, nel Medioevo e nella prima età moderna”. L’imperativo morale avverso agli eccessi nei consumi ispira “leggi che, se da un lato erano dirette a contenere il consumo di lusso e favorivano la produzione e il commercio locale rispetto all’importazione, dall’altro lato miravano a preservare lo status quo. Erano una sorta di «tassa sul lusso» per coloro che potevano permettersi sia gli abiti che il pagamento delle multe in caso di violazione dei divieti”.
Se la moda, dunque, di fatto sottolinea in una società le diseguaglianze fra i ceti, le leggi suntuarie similmente emanavano codici di abbligliamento in una gerarchia legata al censo e alla posizione sociale. ...
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