Ma la vita si gioca altrove
«Volli, sempre volli, fortissimamente volli» disse il poeta Vittorio Alfieri, che, prima di mettersi a scrivere, si faceva legare alla sedia, per ottemperare senza distrazioni al proprio fermo proposito. Ma oggi i giovani impegnati con la Scuola, tra compiti in classe e lezioni, sono disposti a fare lo stesso?
Lo chiediamo ad un esperto, il dottor Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta.
In base alla Sua esperienza clinica, come i giovani vivono il rapporto con l’istituzione scuola?
«Io direi: in due modi. Il primo è la rassegnazione. Non solo i ragazzi, ma tutti siamo convinti che la scuola sia una istituzione “naturale”: c’era quando siamo nati, ci sarà dopo che saremo morti. In realtà la scuola come la conosciamo noi, la “scuola prussiana” obbligatoria, statale e “gratuita”, ha circa 200 anni; in Italia è stata adottata con l’unificazione del 1861. Anche se la Costituzione italiana ha reso meno vincolante quest’obbligo (la scuola è “sussidiaria” alla famiglia), la percezione è che sia impossibile crescere dei figli senza questo tipo di istituzione. Di conseguenza, non ci si pone troppe domande: si va a scuola come ci si alza al mattino e si fanno tre pasti al giorno. Diciamo che è un processo (di noia, socializzazione e istruzione) percepito come ineluttabile. Una percentuale di ragazzi, purtroppo crescente, percepisce la scuola come un processo che stabilisce il proprio valore e la propria dignità espressa in voti; questo contribuisce al fenomeno dell’ansia scolastica, che ha talvolta esiti drammatici. Infine, c’è che lo percepisce come lo strumento per avere accesso a una retribuzione. Esatto: molti pensano che la retribuzione non sia dipendente dal lavoro svolto, ma dal livello di scolarizzazione raggiunto»...
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