La casa di Cesira e Oreste
ma che rischia di andare perduta
Ho letto in questi giorni (purtroppo con quattro anni di ritardo) "Il grande fiume" a cura di Riccardo Groppali. Fin dalle prime pagine è stato esssere ribaltati in una enorme narrazione di ricordi visivi e non, i miei ricordi di bambino e poi di adolescente svezzato nel Po e nel suo alveo, nelle sue lanche e boschine, e più tardi navigazioni in barca a remi, e poi ancora in barca a motore fino al delta proseguendo per Venezia. La struttura a schede e il linguaggio asciutto, volutamente non romantico e non nostalgico, ha straordinariamente aiutato a confrontare ricordo con ricordo, narrazione con parole non ancora scritte. Un lavoro stupendo per me, e condividere silenziosamente persone e situazioni è stato come demolire un muro di solitudine che racchiude tanta vita di cui non ho più parlato. Ma non è per un doveroso ringraziamento a Riccardo che cito il suo volume, ma per una caratteristica specifica: l’aver inserito, quando opportuno e possibile, i termini dialettali corrispondenti a oggetti o azioni. Non un libro di lingua, ma si intende immediatamente la straordinaria qualità dei termini, qui trattati come se fossero diciture tecniche, oggettive ed ineluttabili: la straordinaria sinteticità - il dialetto è più mirato e inecquivoco della lingua consolidata -, la sonorità, con la cadenza che fa scivolare l’intonazione verso il significato, a volte anche l’ironica allusività. Pochi termini non li ricordavo, molti già mi appartenevano e rischiavano di essere dimenticati. D’altra parte il tutto è molto simile alle mie prime volte in cantiere più di cinquant’anni fa: lì il dialetto era necessaria lingua tecnica, e se non distinguevi la “cantinela” dal “travett” e dal “magatel” la tua credibilità era ridotta a zero, e la comunicazione dura e inefficace, come se si fosse estranei alla famiglia dei costruttori in tutti i suoi ruoli.
Ecco l’occasione: la lettura dei ricordi di Franco Lenzi così come raccontati da Groppali è stata la scintilla che mi ha fatto partire l’embolo, la voglia di parlare di dialetto, del nostro dialetto cremonese, di riconoscerlo come lingua e quindi sia come architettura del tempo sia caratteristica fisica del territorio....
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Il dialetto è un codice di appartenenza, ma non per questo è un paradigma escludente, anzi è una soglia verso una conoscenza che man mano assume aspetti razionali di consapevolezza ma anche emozionali, di inespressa sensazione di appartenere a quella che forse è la caratteristica fondamentale di una comunità.
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