Quando sai “di chi sei” non temi di calarti in nessun posto, neppure il più buio. Maria Grazia Calandrone lo ha fatto a 58 anni per ricomporre un pezzo enorme della sua storia. Non c’è stata preparazione o percorso propedeutico – parola infelice – che l’abbia aiutata a farlo. Se non «aver vissuto». E vivendo, aver scoperto di essere amata. Due volte.
Partiamo da qui, dai giorni nostri. Scrittrice e poetessa, drammaturga e conduttrice radiofonica, Maria Grazia è tra i dodici finalisti del premio Strega 2023, come lo fu, peraltro, due anni fa. Il prossimo 7 giugno, vedremo se il suo “Dove non mi hai portata” (Einaudi) finirà nella cinquina definitiva. Sono 250 pagine di una storia vera. Palata, paesino del Molise, anni 50 e 60 del secolo scorso. Lucia va in sposa ad un uomo violento e mai amato, da cui fugge, dopo anni di umiliazione, con l’amante Giuseppe. Arrivano a Milano, dove però comincia un’esistenza ancora più amara. Perseguitata. In quegli anni la legge punisce col carcere il reato dell’adulterio. I due danno alla luce una bimba, ma si sentono braccati. Decidono di viaggiare fino a Roma, abbandonano la piccola nel parco di Villa Borghese, si sincerano che qualcuno la recuperi e si tolgono la vita. È il 24 giugno 1965. La bambina, seduta su un piccolo plaid rosa accanto a una bambola di plastica, è Maria Grazia Calandrone. Ha 8 mesi di vita.
Come si fa a ridiscendere la storia per indagarne una parte così drammatica? Che forza è necessaria? È sufficiente sapere che riguarda sé e non “altri”? Il titolo del libro è un primo indizio di risposta. «Alcuni hanno immaginato che “Dove non mi hai portata” fosse un rimprovero – dice Maria Grazia, raggiunta al telefono di rientro da un viaggio a Cosenza –. Invece no, è un titolo che esprime gratitudine. Dico a mia madre: grazie che non mi hai portata con te nella morte».
Gratitudine anche perché il “dopo” di Maria Grazia non è un inferno, anzi. E perché il gesto di Lucia e Giuseppe è anticipato da un atto d’affidamento nitido, ancor più comprensibile se collocato nel contesto dell’epoca. Prima del suicidio, i due amanti inviano al quotidiano l’Unità l’atto di nascita della bambina accompagnato da una lettera dolorosa e sincera. “Trovandomi in condizioni disperate, Non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti”, scrive Lucia nella missiva. Il ritrovamento della piccola finisce sulle pagine di tutti i giornali. Scatta una gara di solidarietà che muove tantissimi. La bambina, cui sarà lasciato il nome scelto dai genitori naturali, viene adottata da Giacomo Calandrone, ex operaio e deputato comunista e dalla moglie Consolazione, insegnante. Di questa “seconda nascita”, Calandrone ha raccontato nel suo libro precedente, “Splendi come vita” (Ponte alle Grazie, 2021).
«Ci sono motivazioni di natura sociale alla base del gesto di Lucia e Giuseppe», dice l’autrice. «Anche politica e legislativa, ma fondamentalmente sociale. Se, soprattutto mia madre, fosse stata accolta dalla società, quel gesto si sarebbe evitato. Suo marito si avvalse della forza legale e la denuncia comportava l’essere ricercati: avere una figlia illegittima, non poter accedere ad un lavoro regolare. La donna, a quel tempo, era punita per l’adulterio semplice, cioè anche soltanto per un tradimento. L’uomo, per incorrere nel reato, doveva convivere con l’amante».
C’è un fatto (soprendente) che ha spinto Maria Grazia a ricostruire questa storia. «Dopo aver presentato “Splendi come vita”, sono stata sommersa da messaggi. Messaggi di persone che avevano conosciuto Lucia. Da quel momento non ho più potuto far finta di niente. Sono andata a Palata, ho ascoltato le testimonianze e più le ascoltavo più si costruiva il puzzle di questa figura attuale». Una figlia sulle tracce delle sue radici non ha bisogno di prepararsi? Maria Grazia dice di non aver fatto «alcun percorso. Ho semplicemente vissuto. Ho due figli, lavoro come un mulo, la vita ti insegna cose. Certo, ho scritto questo libro oggi, a 58 anni, non vent’anni fa. Era necessario che fossi in grado di reggerne il peso senza rabbia, senza chiedere pietà e senza fare l’orfanella abbandonata, cosa a cui non sono mai stata incline - e lo spiego bene nell’altro libro, dedicato alla mia mamma adottiva. Quando ero in collegio la cosa che più mi infastidiva era il tono di compassione, “Poverina, c’ha ‘na brutta storia”. Eh ma vaffanculo, scusi (ride, ndr). La mia reazione istintiva era questa e lo è tuttora».
A rivelarle di essere nata da un’altra donna è la madre adottiva. «Avevo 4 anni. Da quel momento per me non è cambiato nulla, lo ripeto in modo quasi ossessivo. Per mia madre, invece, è cambiato tutto: il fatto che io sapessi la verità l’ha indotta a credere che, da lì in poi, io l’amassi di meno e questa è una sciocchezza. Ho scritto “Splendi come vita” pensando a un libro su una complessa e intrigante relazione con una madre. Poi ho visto le reazioni e ho capito. Molti genitori adottivi soffrono la loro condizione, come se si sentissero non al cento per cento genitori “veri”, usando una terminologia orribile. Ho cominciato a pensare che “Splendi come vita” potesse smentire questo luogo comune. Veri sono i genitori che ti crescono. Mia mamma e mia papà adottivi sono, per me, i miei genitori».
C’è anche un sentimento di «rabbia fredda, non aggressiva» che vive Calandrone. «La legge sull’aborto arrivò 5 anni dopo il suicidio di Lucia e Giuseppe. Noi umani riusciamo a formalizzare qualcosa di giusto solo dopo che il nostro ritardo ha mietuto vittime. La loro storia racconta di una lotta che stiamo ancora facendo. Quella contro il pregiudizio. Anche oggi in un piccolo paese come Palata, una donna come Lucia verrebbe giudicata allo stesso modo. E lottiamo anche contro casi come quello di Saman. Ho un amico che insegna in un liceo. Dopo aver fatto leggere il libro in classe, una sua alunna del Bangladesh ha detto di riconoscersi in Lucia perché subirà un matrimonio già combinato, al quale lei si vuole opporre in ogni modo».
Chi è, oggi, Maria Grazia Calandrone? «Sono una persona curiosa. Scrivo, faccio un sacco di cose, anche molto diverse. Quella di cui sono più contenta sono i laboratori di scrittura nelle scuole e nelle carceri. La mia ossessione è che la scrittura abbia a che vedere con la vita reale e non sia un’evasione. Uno si legge un libro per passare un po’ di tempo e “andare” da un’altra parte? Ma no. Uno si legge un libro per capire meglio il mondo in cui abita. Ecco, cerco di capire meglio il mondo in cui abito».
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