Ha fatto discutere, suscitato dibattiti, purtroppo anche qualche polemica sopra le righe il caso di Enea, il neonato lasciato dalla madre nella Culla per la Vita della clinica Mangiagalli di Milano lo scorso 9 aprile. E già tre giorni dopo anche un altro piccolo, non riconosciuto dai genitori, è stato affidato alle cure dell’ospedale pediatrico Buzzi di Milano: la madre aveva partorito in uno stabile abbandonato a Quarto Oggiaro. Esperti e volontari, di fronte a queste situazioni, non parlano di abbandono vero e proprio, poiché comunque a questi bambini viene assicurato un’assistenza sanitaria immediata ed un futuro in una famiglia in grado di prendersene cura e di amarlo.
Anche a Cremona è presente da nove anni una Culla per la Vita, la trentaduesima inaugurata in Italia: si trova all’ingresso dell’Ospedale Maggiore, in una zona appartata, lungo la cinta muraria, di fianco al laboratorio dei prelievi. C’è un cartello, che avvisa della sua presenza. È stata intitolata alla fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita, Lina Ghisolfi, poiché grazie ad una sua donazione è stato possibile acquistarla. Il costo della struttura è stato di circa 45 mila euro. Ne parliamo con Bruno Drera, direttore dell’Unità Operativa di Patologia Neonatale dell’Ospedale di Cremona.
Dottore, quante volte la termoculla per la vita è stata utilizzata?
«Dalla sua installazione ad oggi, nessuna. Del resto, dev’essere la soluzione estrema di una situazione estrema di disagio sociale, familiare, culturale o economico. In genere, indica la fragilità del nucleo sociale orbitante attorno alla donna, che, se proprio, dopo aver partorito, decide di non poter tenere il (...)».
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