“Maschi veri”, è in cima alle classifiche, non va oltre la “comfort zone”
“Maschi veri” da poco approdato su Netflix e in cima alle classifiche, è l’ennesimo tentativo di far passare per decostruzione quella che è, in realtà, una riconversione estetica del potere maschile. Otto episodi di crisi pilotata, dove quattro uomini -smarriti, sgonfi, fragili solo per convenienza narrativa - si ritrovano a mettere in scena la disfatta del maschio dominante. Ma attenzione: a raccontarla sono sempre e solo loro. Il maschio qui cade in piedi. Si auto-analizza, si ride addosso, si ricicla. E torna in scena.
L’idea di partenza è chiara: una chat chiamata “Maschi Veri” diventa il teatro simbolico di un gruppo di quarantenni fuori tempo massimo che cerca una nuova narrazione di sé. Uno è un manager licenziato per sessismo, uno un padre disilluso, uno un progressista da manuale, l’altro un barista alfa che scopre l’apocalisse quando la fidanzata gli propone una coppia aperta. A ognuno, il guru del corso per liberarsi della mascolinità tossica assegna un’etichetta: goliardia, pregiudizio, gender washing, orgoglio tossico. Ma la messa in discussione finisce qui.
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Paola Silvia Dolci

