Ci risiamo. A ogni giro di giostra dei fondi europei per la ricerca, la stessa storia. I nostri ricercatori sono fra quelli che ottengono più finanziamenti - a dimostrazione non solo dell’italico ingegno ma anche della qualità delle nostre scuole e delle nostre università - ma quando poi si va a vedere dove fanno ricerca, lì casca l’asino: la maggior parte sono cervelli in fuga che prestano le proprie intelligenze altrove, semplicemente perché per loro qui in Italia non c’è posto. Anche dell’ultima tornata degli Erc Advanced Grants, il fondo da 647 milioni di euro assegnato oggi a 277 ricercatori senior di 29 diverse nazionalità, ci sarebbe di che andar fieri. Gli studiosi italiani si aggiudicano ben 26 borse: siamo terzi, davanti anche ai francesi , dietro ai soliti inglesi e tedeschi, che staccano tutti con 47 grant a testa. Non fosse che, anche questa volta, incassiamo meno di quanto diamo: i finanziamenti andati all’Italia sono solo 19, contro i 69 del Regno Unito, i 43 della Germania, i 30 della Francia, i 21 dei Paesi Bassi e i 20 della Svizzera.
Di questi 19, ben tre (per un valore totale di 5 milioni) se li è aggiudicati la Bocconi, due la Fondazione Telethon, due il Politecnico di Milano, due La Sapienza, uno ciascuno il Cnr, l’Università di Udine, l’Università di Milano, l’Università di Tor Vergata, l’Università di Verona, l’Università di Bologna, la Federico II di Napoli, lo Ieo, la Sissa di Trieste e il Lens di Firenze. Dei tre ricercatori della Bocconi, uno - in perfetta controtendenza con il refrain che ci vuole esportatori quasi netti di talenti - non è italiano. Si chiama Arnstein Aassve, ha 47 anni, si è laureato in informatica nella sua Norvegia, ha perfezionato gli studi in Economia (Master e poi PhD) in Inghilterra, ha lavorato nel dipartimento di Demografia del Max Planck Institute, poi di nuovo in Inghilterra nell’Università di Essex e dal 2007 insegna nell’università privata milanese. Come gli è venuto in mente di imboccare l’autostrada della ricerca in contromano e venire in Italia?«Devo essere sincero . Non so se sarei mai riuscito a venire a lavorare a in un’università pubblica. Troppa burocrazia, troppi problemi - spiega il professor Aassve -. Invece quando sono arrivato qua la Bocconi ha fatto di tutto per rendermi la vita più facile. Per questo da noi ci sono tanti professori stranieri (49 su 299, ndr)». Per l’università di via Sarfatti, attrarre cervelli, è parte del core business, spiega il professore che è anche prorettore del triennio. «Ogni anno andiamo all’American Economical Association Meeting: è un’occasione utile per incontrare candidati di tutte le nazionalità . Quelli che abbiamo selezionato li invitiamo in Italia a fare il colloquio finale. E se tutto va bene ricevono una nostra proposta di lavoro».
Aassve è al suo secondo Erc grant da quando è in Bocconi. Ma il primo era uno «starter grant» (quelli che si danno ai giovani ricercatori), adesso è un «advanced». Nel mezzo ci sono i cosiddetti «consolidator grants» che sono stati al centro delle polemiche un paio di mesi fa dopo che il ministro Stefania Giannini si era congratulata con i 30 italiani vincitori (17 dei quali erano però cervelli in fuga). Le aveva risposto a stretto giro di posta una delle «fortunate» vincitrici, che aveva postato su Facebook un messaggio durissimo in cui denunciava il disprezzo del sistema italiano per il merito e l’opacità del sistema dei concorsi puntualmente vinti da altri, che non vedranno mai un grant europeo. «Per vincere un finanziamento europeo ci vuole prima di tutto una buona idea - spiega il professor Aassve -. Ma devi avere anche una struttura di supporto che ti sorregga quando devi proporlo nelle sedi istituzionali. E la Bocconi mi ha molto aiutato in questo senso».
Con questo suo progetto il professor Aassve vuole cercare di spiegare perché, a fronte di trend globali comuni a tutte le nazioni, come l’aumento dell’istruzione femminile, si registrino esiti demografici diversi in termini, ad esempio, di aumento o calo delle nascite. L’ipotesi è che sia decisiva l’interazione tra tratti culturali locali e qualità delle istituzioni. «Per esempio - dice - i Paesi anglosassoni mantengono un alto tasso di natalità anche se non possono contare sul welfare dei Paesi nordici. Ma da loro ci sono i servizi privati, per esempio i nidi aziendali, a compensare la mancanza del pubblico. L’Italia invece si regge purtroppo sulla famiglia: anche per questo ha un tasso di natalità così basso». Anche se l’inizio è stato difficile, il professor Aassve ammette che ora in Italia si trova molto bene. «Vivo a Torino, ma fare il pendolare con Milano è facile. Ho una moglie italiana e due figli di 4 e 7 anni iscritti in una scuola pubblica, il Convitto Umberto I, di cui sono letteralmente entusiasta». E così ricomincia il ciclo: riusciranno i figli del professor Aassve , semmai sceglieranno di fare anche loro ricerca, a farla in Italia?
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