Le sessantotto università italiane che provano a risvegliarsi nel lunedì che apre la stagione della primavera – la Primavera dell’università, la manifestazione organizzata dalla Conferenza dei rettori(la Crui), abbracciata da 68 atenei pubblici e privati da Trento a Catania – lanciano al pubblico, in verità, un urlo preoccupato. Il rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio, apre a Roma la giornata distillando i dati elaborati dalla Crui, alla fine dei quali dice: “Il governo ha fatto i primi passi per cambiare la rotta, ma sono timidi passi”.
I dati sono questi. L’Italia ha il numero di laureati più basso in Europa: il 17 per cento. Nel Regno Unito sono il 42 per cento, la media laureati dei paesi industrializzati è del 33, del 32 nell’Unione europea e in Francia. Se in Germania c’è un docente ogni 7,5 studenti, in Italia uno ogni diciannove. L’investimento sull’università è di 628 euro per abitante in Corea del Sud, di 304 euro in Germania e di 109 euro nel nostro Paese. Negli ultimi sette anni i governi tedeschi hanno aumentato del 20 per cento i fondi pubblici sugli atenei e la Francia del 3,6 per cento, mentre dal 2009 al 2016 l’Italia li ha diminuiti del 9,9 per cento togliendo 902 milioni ai 7,46 miliardi del Fondo di finanziamento ordinario.
Nell’“università in declino”, sottotitolo del dossier Crui, ci sono stati 130.000 studenti in meno negli ultimi cinque anni (in verità si affaccia una nuova crescita degli immatricolati proprio nella stagione 2015-2016), diecimila ricercatori in meno (su 60.500) negli ultimi sette anni, 5.000 dottori di ricerca in meno nell’ultimo quinquennio. Molto seria, e pesante, è la comparazione europea sul diritto allo studio: in Italia usufruiscono di borse e residenze tra lo 0 e il 9 per cento degli studenti, in Francia tra il 40 e l’80 per cento. Da noi, e le ultime vicende della revisione dei criteri Isee hanno estremizzato la questione, il numero degli aventi diritto a una borsa di studio è superiore alle risorse disponibili. In Italia non si è erosa solo la partecipazione pubblica alla ricerca, ma resta sotto gli standard virtuosi anche la spesa sostenuta dai privati: il 45 per cento del totale quando negli Stati Uniti è il sessanta e in Giappone il 75 per cento.
In questo scenario di sotto finanziamento, il fisico Fulvio Ricci, coordinatore del progetto Virgo sulle onde gravitazionali che ha coinvolto dodici atenei italiani e l’Istituto nazionale di Fisica nucleare, sostiene che la ricerca portata avanti in Italia è comparabile con quella delle migliori università americane (Caltech e Mit) e asiatiche: “E’ questa un’altra modalità del miracolo italiano”, ha sottolineato Ricci. Perché? “Dobbiamo essere all’altezza di partner internazionali che ai giovani offrono borse e stipendi che variano, a seconda dei paesi, dal doppio al quadruplo di quello che possiamo offrire noi”. Già. “I nostri ragazzi studiano una vita in scuole pubbliche italiane per poi trovare un lavoro negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Olanda, in Brasile. Il capitale umano rappresentato dal laureato emigrante è costato al nostro paese 23 miliardi”. Ha chiuso Ricci: “Chi ci guarda dall’estero si stupisce della nostra capacità di resistenza: la legge Gelmini ha portato a una diminuzione del 100 per cento dei progetti di ricerca. Occorre fare in fretta e portare nuova linfa alle università, i miracoli non durano nel tempo”.
A fronte delle mancate risorse, l’Italia nel mondo “è ottava per pubblicazioni, sesta per citazioni, prima per lavori prodotti rispetto al numero dei ricercatori”. Lo si dice praticamente in contemporanea alla Sapienza di Roma e alla Statale di Pisa. Questa distanza tra investimenti e risultati, ha sottolineato ancora il rettore Gaudio, è colmata da una speciale abnegazione tutta italiana. Paolo Rossi, professore di Fisica a Pisa, consigliere del Cun: “E’ necessaria un’anagrafe delle ricerche italiana, non basata su database stranieri estranei alle nostre logiche”.
Diversi, in tutta Italia, hanno sottolineato la cattiva narrazione su un’università pubblica “corrotta e sprecona” quando poi i dati “dicono il contrario”, molti hanno contestato sia la Valutazione della qualità della ricerca – ferita larga che ancora sanguina - che la valutazione tout court: “Il cento per cento dei docenti deve continuamente dimostrare che non è inattivo e, così, riempie carte su carte invece che insegnare”. Mario Panizza, rettore di Roma Tre: “Mi rendo conto della contraddizione tra le critiche all’università nella gestione dell’autonomia e la volontà di una pianificazione indipendente e flessibile, è però necessario assicurare la possibilità di adattare la politica di gestione alle esigenze e alle potenzialità dei singoli atenei. Combinare cultura di governo e massimo rigore
nel controllo dei bilanci”. I rettori delle università lombarde, insieme: “Liberiamo gli atenei da Burocrassic Park”. Gli studenti dell’Udu: “I rettori, in verità, sono stati co-responsabili dello smantellamento delle università italiane”.
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