braccio di ferro per la preziosa teca
La Tavola di Sant’Agata è tornata prepotentemente d’attualità per il confronto in atto tra l’Ufficio diocesano per i beni culturali e l’Unità pastorale di S. Agata, S. Ilario e S. Agostino in merito al trasferimento della preziosa tavola del XIII secolo nel nuovo Museo diocesano. Non è la prima volta che il dipinto è al centro di una discussione di questo genere. Anzi, sono millecinquecento anni che si consuma un silenzioso, ma costante, braccio di ferro tra due diocesi e due regioni per la proprietà, diciamo così, di una preziosa reliquia che sarebbe incapsulata all’interno della tavola stessa.
Guglielmo Durando, vescovo di Mende in Linguadoca morto nel 1296, è stato un grande giurista e trattatista che per lungo tempo ha soggiornato in Italia, prima per gli studi di diritto a Modena e Bologna, poi in qualità di rettore, nelle Marche e in Romagna, per difendere gli interessi del papato dagli attacchi delle famiglie ghibelline.
Proprio lui, nel suo trattato di liturgia, il Rationale divinorum officiorum, ci informa che ai suoi tempi era ancora viva l’eco delle vicende dei martirio di S. Agata e rilevava che la martire, dopo aver subìto tante torture, era morta in carcere e che al momento della sepoltura un angelo avrebbe posto accanto alla sua testa una tavoletta in cui c’era scritto MSSHDEP, cioè “mentem sanctam spontaneam, honorem Deo et patriae liberationem” (mente santa spontanea, onore per Dio e liberazione della patria). Da questo sarebbe invalsa la consuetudine di celebrare ogni anno una processione. Guglielmo Durando non cita espressamente i luoghi in cui si teneva questa processione anche se è facile supporre che inizialmente quel rito, divenuto così notorio e tradizionale, si celebrasse a Catania, dove quella tavoletta, anche se unita all’immagine di sant’Agata, trovava il suo significato più profondo.
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