Studioso, psicologo, docente, scrittore. Renato Rozzi, venuto a mancare lo scorso 9 novembre, è stato tutto ciò.
Una vita caratterizzata da uno sguardo attento rivolto al prossimo, sin dalla gioventù, in cui si è dedicato alla psicologia clinica, nei cantieri scuola, nel carcere minorile e nel reparto psichiatrico dell’ospedale, fino ad arrivare alla carriera accademica, come docente universitario, a Milano, Trento e Cosenza, di Psicologia sociale e Psicologia dell’età evolutiva. Nel mezzo, un’importante esperienza lavorativa alla Olivetti, come psicologo dell’azienda.
A lui, alla sua attività e al suo ricordo è dedicato il Premio alla Memoria dei Cremonesi dell’anno 2024, consegnato, durante la trasmissione “La Piazza”, in onda su CR1, ai nipoti Carlo e Stefano Rozzi.
Cosa ha lasciato vostro zio, Renato Rozzi, all’Italia, alla psicologia, alla società in generale?
Stefano: «La prendo un po’ lunga. Per capire cosa ha lasciato bisogna capire da dove è partito. Quando lo zio Renato ha iniziato, la psicologia, in Italia, non esisteva; c’erano state le pietre miliari, ma all’estero. Lui più che fare lo psicologo era uno psicologo, costituzionalmente parlando. Quindi ha cercato di scavarsi una via in quella direzione. Per cui, non esistendo una facoltà di Psicologia, ha studiato Filosofia, che era la cosa più affine, facendo – cosa che ho scoperto tardi anch’io – anche degli esami sovrannumerari a Medicina. Perché era entrato in contatto con il professor Musatti, primo psicanalista e primo a portare la psicanalisi in Italia e ha deciso di andare in quella direzione. Lì c’è stata la sua grande fortuna, che non è stata tanto quella di conoscere Musatti, ma ancora prima, di innamorarsi della fenomenologia, di Husserl di Maurice Merleau-Ponty. Perché dico questo? Perché l’approccio fenomenologico è quelllo che ha caratterizzato tutto il suo percoso scientifico e culturale, non solo nel primo periodo. Grazie a questo approccio fenomenologico, lui è passato per questa prima fase in cui si è occupato di psicologia del profondo, di psicologia individuale, per una seconda fase, quella più legata al periodo dell’Olivetti, in cui si è dedicato in particolare alla psicologia del lavoro, e per una terza fase, in cui lo stesso approccio fenomenologico di osservazione dei fenomeni e della loro interpretazione è passato sul sociale. Quindi, dal piccolo al grande, questo è stato il suo percorso. In ognuno di questi ambiti ha posto dei punti molto importanti. Penso anche al fatto che è stato uno dei “liberatori”, come diceva lui, di Sospiro, dopo Basaglia. “Liberazione” che gli è costata anche una denuncia»...
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