e artigianato
Per la rubrica: Le forme del vivere
La volgare insipienza si perpetua da decenni nelle pubblicità, sulle insegne, nelle trasmissioni televisive, ormai nel comune discorrere: si continua a parlare di “oggetti di design”, si continua ad affermare di produrli e di metterli in commercio, senza il minimo pudore dell’enorme - e spesso voluto - falso lessicale che si propina. Design significa, nella più semplice e diretta traduzione dall’inglese, progetto: e non esiste cosa di umana origine che non sia frutto di un progetto, in buona sostanza di un mix fra volontà creativa, volontà espressiva, volontà produttiva. Nel tempo ignoranza e interesse hanno attribuito al termine “design” un significato valoriale che non esiste, che non può che generare confusione. Abbiamo sicuramente oggetti brutti e oggetti belli, utili e inutili, giusti o sbagliati, ma comunque tutti sono figli di un progetto, il design appunto, a cui si deve far soprattutto ascendere il loro risultato: la qualità di un oggetto dipende inizialmente dalla qualità del progetto. Che sarebbe come dire, ed è verissimo, che in primis la qualità di una risposta dipende dalla qualità della domanda, non c’è risposta intelligente a una domanda stupida. Quindi non compriamoli mai gli oggetti di design, non diamo retta a chi ci propone qualità inventate, faremo un’opera buona a noi stessi e al nostro ambiente.
È una battaglia quasi persa, ma che ancora ha senso: la querelle ha il suo momento topico negli anni ’60, quando il design italiano sembrava un enorme plusvalore della produzione industriale, essere in questa cerchia voleva dire collocarsi nell’eccellenza della qualità, in un mondo che occhieggiava all’arte per rivenderla come valore aggiunto nella quotidianità “industrialmente” determinata...
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